Kabīr (vita e opere di Kabir, mistico indiano. Fonte principale: Wikipedia/risorse) – (devanāgarī: कबीर) (Vārāṇasī, 1440 circa – Maghar, 1518 circa) è un mistico e poeta indiano tra i più celebri, venerato sia dagli hindū che dai musulmani.
… morire a Maghar significava rinascere nella forma di un asino …
Le notizie sulla sua vita sono scarse e spesso avvolte nella leggenda. Ciò che sappiamo è che visse nel XV secolo, nei pressi di Vārāṇasī (Benares); apparteneva alla casta umile degli julāhā (tessitori).
Il credo religioso di Kabīr resta un mistero. La lettura delle fonti in questo caso non aiuta granché. È lo stesso Kabīr, infatti, che talvolta si dice hindū, altre volte musulmano e in altre ancora né l’uno né l’altro((Cfr. Laxman Prasad Mishra, in Mistici indiani medievali. Torino, Utet, 1971, p. 23.)).
La famiglia era quasi certamente musulmana, anche se aperta all’influenza dei Nātha((tradizione yogica diffusa per tutta l’India settentrionale)). Ancora secondo la biografia leggendaria, Kabīr preferì la compagnia dei sādhu al lavoro del telaio. Dopo la morte dei genitori, arrivò anzi a distruggere il telaio; si segnò sul corpo il nome di Rāma e divenne asceta itinerante. La tradizione narra che abbia avuto due mogli, Loi e Dhanyā, e due figli, il primo maschio, Kamāl, e la seconda femmina, Kamli.
La leggenda racconta che al termine del lungo cammino, ormai centenario, scelse di morire a Maghar, un piccolo villaggio nei pressi di Gorakhpur. Secondo le credenze locali, chi moriva a Vārāṇasī guadagnava una rinascita favorevole; al contrario, morire a Maghar significava rinascere nella forma di un asino. E lì scelse di spirare Kabīr, rifiutando la facile rinascita nel mondo divino.
Kabīr decise di ritirarsi in una tenda… e scomparve; trovarono solo un mazzo di fiori che fu egualmente diviso tra le fazioni mussulmana hindū: i primi tumularono la loro parte di spoglie, e sui resti eressero un monumento islamico; altrettanto fecero gli hindū, che cremarono i resti e li dispersero nel Gange, edificando un samādhi ((tomba commemorativa)).
Le Kabīrvāṇī
L’opera in cui vengono raccolti i testi attribuiti a Kabīr prende il nome plurale delle Kabīrvāṇī.((Parole di Kabīr))
Il poeta non scrisse nulla di proprio pugno; la lingua che utilizza è probabilmente un forma di hindī molto antica: una lingua franca adottata dagli asceti erranti.
I suoi discorsi, gli insegnamenti e i canti si diffusero su larga parte del Bihar, giungendo nel Panjab e nel Rajasthan. Nel tempo, acquisirono la forma di distici popolari((dohā)), o di ritornelli((pada)).
Il documento scritto più antico delle Kabīrvāṇī è raccolto nel Gurū Granth dei Sikh, compilato nel 1604 da Gurū Arjun. Questo testimone è significativo anche per il fatto che assegna a Kabīr la qualifica di bhagat, anzi il più eminente tra i bhagat venuti ad essere prima di Guru Nānak.
Oggi gli hindū e i musulmani sono concordi nel leggere la figura di Kabīr come quella di colui che volle promuovere una maggiore coesione tra i due gruppi religiosi, ma una lettura attenta della sua opera disegna una dottrina diversa avendo questa espressamente rifiutato ambedue le religioni, criticando aspramente i loro rappresentati. Kabīr rifiutava ogni religione “rivelata”, negando decisamente autorità religiosa sia al Corano che ai Veda.
Non solo; come sostiene Charlotte Vaudeville((alla voce Kabīr nella Enciclopedia delle religioni, vol. 9. Milano, Jaca Book, 2006))
« la nozione di Dio peculiare a Kabīr sembra andare oltre la nozione di un dio personale, a dispetto del fatto ch’egli possa a lui rivolgersi con il nome di Rām o Khudā. Nonostante egli spesso menzioni Hari, Rām o il “nome di Rām”, il contesto molto spesso suggerisce che questi sono solo dei nomi per riferirsi alla Realtà che tutto pervade – una realtà al di là delle parole, “oltre ciò che è oltre”, identificata frequentemente con śūnya (“il vuoto”) o con lo stato ineffabile ch’egli chiama sahaj.
La visione che Kabīr ha del mondo è tragica. La vita non è altro che un momento fugace tra due morti nel mondo della trasmigrazione. I vincoli familiari sono insignificanti e restano confinati nell’ambito dell’interesse personale. La donna è “l’inferno”. La morte abbraccia tutto: gli esseri viventi sono paragonati al “grano arrostito della Morte, un po’ nella sua bocca, il resto nel suo grembo”.
Non c’è speranza né fuga se non all’interno del proprio cuore. L’uomo deve cercare dentro sé stesso, sbarazzarsi dell’orgoglio e dell’egoismo, immergersi fino in fondo alla ricerca del “diamante” nascosto all’interno della propria anima. Dunque, lo stato misterioso e ineffabile può essere attinto solo all’interno del corpo stesso – un mistero che Kabīr descrive nei termini della fusione […] La sua visione pessimistica della vita mondana, il suo disprezzo per le scritture sacre e i guru umani, il suo richiamo insistente all’interiorità non possono essere dimenticati. Il tipo di misticismo ch’egli professava può apparire ateo se per “Dio” s’intende una persona divina. In un certo senso, Kabīr è non solo un iconoclasta ma potrebbe addirittura essere tacciato di irreligiosità – e tuttavia egli appare come un maestro della “religione interiore”. »
Laxman Prasad Mishra ha operato la prima traduzione integrale in lingua occidentale delle opere di Kabīr, facendo riferimento alla versione della Nāgari Prachārin Sabhā di Benares, commentata e introdotta da Shyam Sundar Das. Tale traduzione è stata pubblicata nel 1971 dalla Utet di Torino nel volume Mistici indiani medievali.
Kabīr, Granthāvali
« Quando conobbi Govinda, conobbi anche la pace.
La sahaja samādhi ha eretto in me un tempio di eterna benedizione. Yama è fuggito lontano con i piedi del terrore, e tutto il mio affaccendarmi è un dramma dimenticato.
Non c’è altro che pace in me. Pace e benevolenza. I miei nemici sono adesso cari compagni pieni di premure.
Ricorda: se non conosci bene il rovescio della tua anima, le tre afflizioni((ādhibhautika (le vicende terrene), ādhidevika (il frutto del karman), ādhyātmika (impedimento della realizzazione spirituale) )) continueranno a tormentarti.
Ora che l’anima mia s’è offerta all’Eterno Brahman, so che non perirò mai.
Dice Kabir: Non si teme nessuno e si è da tutti amati quando tale quiete pervade la mente.»
Kabīr, Granthāvali: Pada, 15; traduzione di Laxman Prasad Mishra
« Se mi si chiede quel che penso della varna[6], risponderò che almeno per la loro superiorità numerica le tre caste inferiori finiranno per sommergere quella dei bramini. Nessun uomo è concepito o nasce in modo diverso dagli altri, quindi nessuno è nobile o plebeo. Soltanto lo stampo delle sue azioni individuali lo rende differente dai suoi simili. O Bramino, tutto il tuo orgoglio deriva dall’essere stato partorito da una donna bramina: pensi forse d’esser venuto alla luce seguendo un’altra via? E tu islamita, che poni dinnanzi a tutto la tua religione, perché non fosti circonciso quando eri nel ventre di tua madre? Dice Kabir: Nessuno è sminuito dalla propria nascita; solo il mortale sulle cui labbra non sboccia il Nome di Dio conferma la sua infima estrazione. »
Kabīr, Granthāvali: Pada, 41; traduzione di Laxman Prasad Mishra